In medicina riabilitativa si da una grande importanza alla differenza tra handicap e disabilità.
La disabilità è secondaria a un danno funzionale a sua volta secondario a una patologia specifica che ne impedisce una corretta funzionalità.
Un handicap é un difficoltà o incapacità di realizzare il nostro potenziale fisico, psichico e sociale indipendentemente dalla presenza o assenza di un danno o patologia specifica. Non si tratta di una parolaccia oppure di un insulto come molti credono ma di una condizione talora piu frequente di quanto non si pensi.
La prima domanda giusta dovrebbe essere: quanto potenziale non sviluppato possiede un soggetto cosiddetto sano oppure malato?
Il classico esempio di un soggetto disabile che non possiamo assolutamente ritenere affetto da handicap è il famoso Stephen Hawking che, pur costretto da giovanissimo alla carrozzina, ha realizzato una vita colma di successi sia sul profilo psichico che sociale e professionale. La gravità del suo disturbo neurologico non gli ha impedito di affermarsi in ambito professionale ne di esprimersi perfettamente in quello famigliare e affettivo. Qualcuno potrebbe dire che i talenti del Prof. Hawking erano nella sua mente e non nel suo corpo ma lui, più di molti, è riuscito a svilupparli e a non lasciarsi ostacolare ne suggestionare dalla sua diagnosi infausta.
Anzi, potremmo dire che la durata della sua vita é stata inaspettatamente molto piu lunga di quanto i medici ritenessero possibile. E questo a noi medici dovrebbe fare pensare, soprattutto quando la diagnosi la lanciamo come una mannaia che non lascia scampo ne possibilità di alcun tipo. E’ appunto sul ruolo e importanza della diagnosi clinica che oggi vorrei tentare di fare un’analisi e un’elucubrazione del tutto personali.
Capita molto frequentemente nel mio lavoro di osservare come una diagnosi possa diventare una sorta di scusa per non impegnarsi e riesca a limitarci mentalmente ben al di sopra delle nostre reali possibilità e potenzialità. E questo limite lo mette spesso il paziente ma lo mettiamo ancora più spesso noi medici. Ogni paziente è un mondo a sé e possiede potenzialità meravigliose sul profilo fisico, psichico e sociale, molto spesso sottostimate dai più. Ecco perchè i trattamenti vanno fatti sempre su misura e adeguati millimetricamente sui desideri profondi e sulle potenzialità peculiari fisiche, psichiche e sociali dell’individuo nel suo insieme e non solo sulla diagnosi cartacea o sul concetto di risparmio economico.
Una carrozzina, se data troppo precocemente, può accelerare la debolezza muscolare e ossea e causare altri disturbi fra cui la stitichezza. Non data in tempo utile invece puo limitare grandemente la libertà e la socialità. Analogamente estendendo questo concetto alla diagnosi, dobbiamo considerare che anche l’assenza di una diagnosi precisa può ostacolare grandemente il percorso riabilitativo. Siamo abituati a pensare che la diagnosi è utile solo quando esiste un intervento chirurgico e farmacologico capace di guarirci o curarci. Non è così: se da un lato il non sapere potrebbe consentirci di vivere una cosiddetta normalità, é vero anche il suo contrario, ovvero l’asticella che ci poniamo davanti come obiettivo nella vita quotidiana, potrebbe sistematicamente essere troppo alta per le nostre reali possibilità. Ne consegue in maniera diretta una frustrazione non da poco da parte del paziente e un continuo senso di fallimento e di inadeguatezza che possono portare a danni talora anche importanti sul profilo psichico.
Certo dobbiamo stare molto attenti a non usare la diagnosi come un’arma per non impegnarci a fondo. E in questo senso noi medici dobbiamo in primis metterci in gioco e, con la scusa di non dare false aspettative, spesso ci adagiamo troppo. Frasi come “Signora é l’artrosi legata alla sua veneranda età , il dolore se lo deve tenere” non sono piu accettabili, lo stesso vale su preconcetti appioppati genericamente a patologie croniche e invalidanti. Si può dipingere con i piedi e con la bocca e questo, pazienti straordinari ce lo hanno mostrato molto bene.
Senza una diagnosi mancano gli orizzonti e le grandi direzioni da dare al nostro lavoro. Un po quello che si cerca oggi di fare un po grossolanamente a scuola per orientare gli studenti verso i loro talenti. Se cureremo un paziente con una neoplasia maligna il nostro obiettivo sarà diverso da un paziente con gli stessi identici sintomi di insonnia e lo stesso sarà per un disturbo psichico conclamato rispetto a una semplice ansia da prestazione. Anche l’accettazione della nostra patologia organica o del nostro disturbo psichico è un punto di partenza fondamentale per costruire un percorso capace di adeguare piccoli accorgimenti atti a superare le nostre reali difficoltà individuali e mostrarci il nostro orizzonte e le giuste potenzialità da sviluppare.
Si parla molto della differenza tra equità in ambito politico e sociale ma poi non la si realizza in ambito individuale e culturale: in un certo senso alla fine vogliamo essere tutti uguali, temiamo come la peste l’etichetta del diversamente abile ma siamo tutti diversamente abili in qualcosa e forse è proprio per questo che molti sono infelici, nonostante l’apparente e desiderata uguaglianza.
In entrambi questi due atteggiamenti, da un lato il subire i limiti precostituiti di un’etichetta diagnostica e dall’altro il rifiutare la patologia o reale difficoltà, il paziente si trasforma suo malgrado nella vittima non già di una condizione patologica ma dell’idea che abbiamo di tale patologia diventando incapace di convivere armonicamente con essa.
Un discorso molto complesso ma che ogni riabilitatore deve avere a cuore, insegnando trucchi e sistemi per superare gli ostacoli e rinforzare le proprie debolezze e accettando amorevolmente tutte le difficoltà qualunque esse siano. Un lavoro continuo e incessante che consentirà ai nostri talenti di emergere e alla nostra vita di essere comunque sempre vissuta con intensità.
Per ogni pianta esistono il luogo e il tempo perfetti per fiorire.