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La mancanza di fiducia e di libertà: la peggior medicina

La medicina si pone come obiettivo quello di curare e lenire la malattia limitando per quanto possibile di nuocere alla salute sia fisica che mentale di chiunque.

Nel nuovissimo giuramento medico modificato nel 2014 vi è scritto, fra le numerose voci,  “di esercitare la medicina in autonomia di giudizio e responsabilità di comportamento contrastando ogni indebito condizionamento che limiti la libertà e l’indipendenza della professione” e ancora “giuro di di attenermi ai principi  civili di rispetto dell’autonomia della persona“.

Pare evidente che ogni medicamento inteso come sostanza introdotta nel corpo, anche la più naturale e pura, abbia i suoi possibili effetti potenzialmente nocivi: le interazioni con altri farmaci, la presenza di problemi individuali vedi ad esempio alterata funzionalità renale o epatica, oppure l’ipersensibilità e reattività individuale.

Sono da prendere due grandi aspetti cruciali; la cosiddetta adeguatezza della cura medica, come quando e perché un medicamento diventa consentito dalla comunità medica. E come secondo punto, quando il  rifiuto da parte del paziente sia una scelta non solo possibile ma da rispettare.

L’ adeguatezza della cura ai tempi di Ippocrate era affidata ai singoli medici che la tramandavano ai loro allievi e così via. Oggi una cura anche salvavita deve essere approvata dal ministero della salute e questo richiede tempi burocratici talora anche lunghi oltre che un lavoro e documentazione scientifica complessa, che dovrà essere sottoposta all’approvazione da parte dei comitati etici e di farmacovigilanza. Percorsi questi che sono sufficienti a demotivare il singolo medico ispirato o con un’intuizione anche brillante. Oggi sono per lo più i ricercatori delle case farmaceutiche che studiano e propongono soluzioni farmacologiche nuove, che potranno essere approvate. Oppure ancora medici che si appoggiano a case farmaceutiche per portare avanti ricerche sull’efficacia di un farmaco rispetto a un altro, difficile cavarsela sul campo clinico senza aiuti o conoscenze in tale senso.

Per i medici è difficile infine affidarsi all’informatore medico della casa farmaceutica di turno per iniziare con un nuovo farmaco mai commercializzato prima.  L’idoneità all’utilizzo di un farmaco  diventa un percorso che ai nostri tempi non è più così semplice e si baserà necessariamente su protocolli rigorosi da parte di chi propone il nuovo trattamento e non solo sull’efficacia della propria pratica clinica anche se ineccepibile. Per i medici la scelta di una cura piuttosto che un’altra non è più questione di esperienza personale sul campo o di quella del proprio insegnante ma si dovrà necessariamente basare sull’esperienza più ampia di altri colleghi i cui nomi saranno scritti in cima all’articolo pubblicato sulla note riviste scientifiche. Un percorso sempre più complesso e non sempre facile sul quale è giusto e doveroso farsi delle domande. Soprattutto quando a imporre gli standard c’è un’organizzazione che, come nel caso dell’ OMS, perde credibilità e pulizia di intenti, è corretto chiedersi se la giurata autonomia di giudizio da parte dei medici possa venire a mancare.

Infine il diritto del paziente ad accettare la cura per se stesso in autonomia mi sembra sacrosanta anche se in fin di vita dovesse rinunciare al farmaco che gli può salvare la vita.  il che significa che accertata la presenza  della capacità di intendere e volere da parte del paziente adulto, sottoscritta la liberatoria che soleva il medico dalla responsabilità di tale scelta, non possiamo imporci sulle sue scelte a meno che non limiti con evidenza e certezza la salute degli altri. E di certezze a mio parere ne abbiamo davvero poche e sarebbe giusto ora più che mai ammetterlo, al posto di sbandierare ideologie e demagogie camuffate da sicurezze assolute. La medicina non è una scienza perfetta ma che si sviluppa facendo i suoi errori. Quanti farmaci abbiamo cambiato e modificato solo dopo aver potuto effettivamente constatarne i danni a lungo termine. Non è una colpa, sbagliando e solo sbagliando si impara. E anche se tutti coloro che si sentono medici con una laurea presa su Facebook mi fanno paura e talora rimpiangere di essermi buttata in questo campo, questa è la sola medicina possibile e molti sono i passi fatti in avanti anche se siamo ben lontani dal sentirci sicuri da ogni male e dovremmo averlo capito bene.

La medicina per non essere la peggior medicina dovrebbe rispettare come giustamente scritto nel giuramento del 2014, sia l’autonomia del medico e per medico intendo colui che lavora sul campo e non dietro a una scrivania, che l’autonomia del paziente che la assume. Ritengo sia un aspetto fondamentale che rischiamo di perdere di vista attraverso una centralizzazione del giudizio  e del concetto di benessere che, pur in caso estremo ma comunque possibile, nel futuro dobbiamo evitare che ci sfugga di mano.

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1 Comment

  1. Daniela Arervo ha detto:

    Buongiorno Dottoressa Bellwald, la seguo da tempo e sono molto dispiaciuta di non averla ancora conosciuta ai suoi corsi che, immagino, siano ora sospesi all’Ediermes.
    Mi colpisce questo suo articolo perchè calza con una serie di problematiche che vivo con i miei colleghi al lavoro. Sono fisioterapista nell’Unità Spinale di Torino, che ha una lunga storia ed esperienza come struttura, ma che si vede lentamente cambiare nella sua essenza, per scelte delle alte sfere, per sistemi ormai inevitabili, per un cambiamento dell’utenza stessa che è sempre più complessa e anziana…
    Lentamente verrà trasformata in un centro definito di “alta complessità” dentro il quale probabilmente accederà di tutto, dal paziente clinicamente complesso, al tumorale…e nel quale l’aspetto riabilitativo sarà sempre più risicato, sempre più tecnico e complicato, senza una progettualità a largo raggio…
    Spesso ci troviamo a seguire dei pazienti, soprattutto quando sono giovani, che hanno bisogno di un intervento ed un progetto riabilitativo tipico di una unità spinale ( che comprende aspetti che vanno dal ripristino delle funzioni autonome, alle attività della vita quotidiana, alla scelta degli ausili, alle modifiche ambientali, al reinserimento lavorativo…). Spesso però le scelte sono vincolate dal risk managment, dal rapporto col territorio che dovrebbe subentrare ma che spesso non ha le competenze (quando dimettere? che tipo di riabilitazione può offrire, il supporto assistenziale…), dalle regole imposte dalla pandemia…
    Insomma spesso ci troviamo in conflitto col primario che sente la responsabilità del rischio di errori con conseguenze penali, divieti di uscita per la pandemia quando il nostro protocollo prevde che i pazienti vadano a casa nel we per sperimentare la vita fuori di qui. L’ultimo esempio: un paziente anziano è caduto, nonostante i ns continui avvertimenti e la conseguenza è che dobbiamo fasciare alla carrozzina tutti i pazienti a rischio di cadute…il fatto è che il paziente mieloleso ha sempre problemi di equilibrio e, soprattutto se è giovane, deve fare un percorso di addestramento alla carrozzina che PREVEDE il rischio di cadute.
    le chiedo perciò come destreggiarsi in questo mare di complessità e burocrazia? Una volta non ci si poneva questi limiti di libertà d’azione, è vero anche che non c’era un’utenza sempre pronta alla denuncia. Il fatto è che tutto questo è molto frustrante ed eticamente criticabile. Ho sempre pensato che se fossi un paziente potrei denunciare si la struttura ma per “mancanza di coraggio!”. Attendo consigli e magari qualche documento interessante…GRAZIE DEL SUO LAVORO

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